Città, Rumore, Suono
Giacomo è accademico e professore insegna alla “University of Helsinki” e alla “Dusseldorf University of Applied Sciences”. Specializzato in Urban Studies e Music Research, scrive libri, tiene conferenze e fa ricerche a livello internazionale attraverso varie discipline. Attualmente vive a Helsinki. giacomobotta.wordpress.com
La vita in città è sempre stata un casino. Le città sono spazi dove la gente vive ammassata, spesso senza conoscersi, in palazzoni di qualche piano e va al lavoro ogni giorno in bus o con la bici o in macchina, anche se non sa se troverà parcheggio. Le città puzzano di immondizia, riscaldamento a gasolio, caffè e gas di scarico. Le città sono anche dei posti rumorosi: le macchine, i bus, la gente fanno un gran casino.
Mentre gli odori sono stati sempre più messi sotto controllo, raramente in una città europea ci troviamo confrontati con la puzza di una fogna a cielo aperto, come invece capita ancora in alcune megalopoli dell’Asia o in Africa, il rumore si è evoluto senza realmente essere
mitigato. Certo le aree pedonali sono meno rumorose dei centri aperti al traffico, molti servizi urbani sono oggi elettrici e molti altri macchinari, tipo i bancomat, sono digitali e quindi silenziosi, ma il casino resta. Magari è concentrato in periferia, dove le tangenziali si incrociano di fianco agli aeroporti e i centri di logistica distribuiscono prodotti comprati in internet 24 ore al giorno o è in centro dove la movida non lascia dormire chi dovrebbe.
Inoltre le città sono diventate anche più uniformi, nel senso che i paesaggi sonori sono molto simili. Dovunque saremo al mondo, ci si troverà sempre a entrare da H&M o all’Ikea o in un Lidl e ad ascoltare la stessa playlist diffusa per farci comprare di più. Oppure di sera entreremo in un pub, dove una cover band di Bruce Springsteen è alle prese con ‘Thunder Road’ o in un club dove un dj seleziona minimal techno per ore. Anche se ci trovassimo a reagire comprandoci un paio di cuffie antirumore, le utilizzeremmo per ascoltare musica in streaming sul nostro telefono, organizzata in una qualche playlist decisa da un algoritmo sviluppato da Spotify o da YouTube, che tende sempre a ridarci in continuazione quello che
ci piace e a conformarlo inesorabilmente a quello che piace agli altri. Questo porta pochi
artisti ad avere ascolti assolutamente enormi e a diventare ricchissimi, mentre una massa resta nel limbo dei zero ascolti.
Insomma sia in diffusione, che nella nostra bolla antirumore, finiamo a costruirci un soundscape che non cambia molto da quello degli altri abitanti del mondo che vivono in città. Questo ha delle conseguenze che possiamo leggere in diversi modi.
Gli studi di soundscape sono nati negli anni settanta in relazione ad una spinta ecologista, che si era fatta strada in tutto il mondo. Le feste degli alberi, i piani verdi, le canzoni sull’inquinamento e la raccolta differenziata nascevano in reazione alla crisi petrolifera e alla deindustrializzazione. Allo stesso tempo si cominciava a parlare di patrimonio, di conservazione e di rispetto per le risorse ecologiche. Gli studi del paesaggio sonoro nascono con questa attitudine positivista, volta a preservare i paesaggi sonori considerati autentici e naturali e a criticare il casino delle metropoli e dell’industria.
Un’attitudine diversa è quella che invece investe nel rumore urbano come in un qualcosa di produttivo. Ci avevano già provato i futuristi e le avanguardie sonore russe a fare questo, anche se lì si trattava più che altro di assoggettare il rumore a un’estetica formale e a dominarlo tramite la notazione e l’esecuzione. Invece è dalla fine degli anni settanta che il rumore inizia a diventare un interlocutore interessante per la musica non classica e che allo stesso tempo le città - nella loro dimensione più densa e rumorosa - diventano territori di conquista per le retroguardie. Con retroguardie intendo le avanguardie che invece di guardare in avanti guardano indietro, riscoprono i suoni dell’industria (trasferitasi in paesi con manodopera a costo più basso) e i quartieri popolari, infilati nei centri città in epoche dove questo faceva comodo. È alla fine degli anni settanta che comincia a crearsi una rete di rumore che passa da Berlino a Amsterdam, da Madrid a Milano, fino a Belgrado e Varsavia e Gröningen e Porto e che per un po’ definisce quello che il suono può diventare, anche quando non distinto, non articolato e di bassa fedeltà.
Passati più di quarant’anni, abbiamo visto i quartieri popolari trasformarsi in lusso e speculazione, gli affitti alzarsi e il rumore diventare sempre più definito fino a trasformarsi in roba per musei di design, oppure scomparire.
Nel 2020 sembra che in molte delle città in lockdown si sia ricominciato a sentire distintamente gli uccelli cantare.
Giacomo Bottà